Musica tradizionale

Tre nuovi libri esaminano la musica degli indiani del Nord America, il flauto shakuhachi e l'estetica musicale giapponese, e la musica e gli strumenti della cultura curda di Iran e Iraq.

Foto: Richard Throssel, 1910 circa. Quelle: dono di Graham e Susan Nash/flickr commons

Pubblicato per la prima volta nel 1926, Gli indiani d'America e la loro musica dell'etnomusicologa Frances Densmore, appena pubblicato in traduzione, è uno dei primi grandi contributi in questo campo, frutto di decenni di ricerche dell'autrice sulle numerose tribù con cui ha lavorato nel corso degli anni, evidenziandone somiglianze e differenze, descrivendone le usanze e definendone il contesto sociale. Dopo una presentazione generale di alcuni aspetti culturali delle 342 tribù di indiani del Nord America, dai Pueblos del Nuovo Messico ai popoli eschimesi dell'estremo nord, questo libretto altamente informativo passa allo studio delle varie forme di canto, che colpiscono sia per i frequenti cambiamenti nella durata delle battute, con alternanza irregolare, sia per il fatto che il tempo può essere diverso tra il cantante e il suo accompagnamento di tamburi. Come invocazioni individuali o collettive di spiriti o aiuti soprannaturali, alcuni canti accompagnavano le cerimonie, mentre altri erano ritenuti dotati di poteri magici, come la guarigione. Altri ancora erano usati per giochi, danze, seduzione o per rendere omaggio a un guerriero; le melodie potevano anche essere ricevute durante un sogno. L'autore spiega la poetica e i temi dei testi, che comprendono anche canti vocalizzati con poche o nessuna parola, lingue segrete destinate agli iniziati, lingue inventate durante i sogni, testi antichi che gli esecutori non capiscono più, e melodie nella lingua di un'altra etnia. Le tribù avevano i loro repertori, ma potevano anche scambiarsi le loro canzoni. Gran parte del libro è dedicata agli strumenti: flauti dolci e fischietti, percussioni (soprattutto vari tamburelli, tamburi e idiofoni); solo gli Apache usavano uno strumento a corde, il violino.

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Il sottotitolo del libro di Bruno Deschênes sul flauto di bambù shakuhachi, "une tradition réinventée" (una tradizione reinventata), è una chiara indicazione di quanto l'occidentalizzazione forzata, a partire dalla fine dello shogunato, abbia profondamente modificato l'uso di questo strumento, a lungo associato a una corporazione di monaci, permettendogli di diffondersi maggiormente e rendendolo popolare fino all'Europa e al Nord America. In cambio, da alcuni decenni la musica occidentale influenza il modo di suonare lo strumento, l'accordatura, l'intonazione e persino le melodie. Oltre alla storia, alle tecniche di esecuzione e alle notazioni, l'autore analizza anche l'evoluzione della costruzione dello shakuhachi e i suoi vari modelli (oltre alla lunghezza standard che ha dato il nome allo strumento, esistono shakuhachi più piccoli e più lunghi, fino al doppio). Analizza anche la struttura melodica, ovvero la disposizione dei motivi che rappresentano, per metafora, gli stati d'animo. Attraverso la pratica e l'autodisciplina nell'apprendistato artistico, o più precisamente nel percorso dell'arte (geidō), si mira a una maturazione della personalità e a una trasformazione del sé, più che alla semplice abilità tecnica. Questo libro è anche un'introduzione al pensiero tradizionale giapponese, che si basa sull'esperienza e sul sentimento e in cui l'estetica è preminente, alla base di ogni attività e di ogni gesto. Il libro tratta anche del "ma", un concetto polisemantico che comprende spazio e tempo, e dell'importanza della forma corretta di atti e rituali, non solo come elementi relazionali, ma anche come modo di strutturare la società e l'opera d'arte. L'ultimo capitolo, il più sviluppato, tratta dell'estetica musicale giapponese, approfondendo alcune nozioni già incontrate (metafore, intersoggettività, ruolo della trasmissione da maestro a discepolo).

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Situata alla confluenza delle influenze arabe, persiane e turche, ma dotata di una propria individualità, la musica curda rimane poco conosciuta. Lo studio di Mohammad Ali Merati si concentra innanzitutto su antichi canti non religiosi (lirici, elegiaci, epici), alcuni dei quali si basano su tradizioni (yazdanismo e zoroastrismo) le cui origini risalgono al periodo pre-islamico. Alcuni di questi canti possono essere utilizzati anche in un contesto religioso. La parte centrale del libro è dedicata alle forme modali - qui classificate per la prima volta - e alla loro struttura, con analisi complete di esempi trascritti in partitura. Il maqam si riferisce sia a un sistema musicale sia alle sue applicazioni specifiche: ogni maqam ha una propria organizzazione scalare, un proprio colore e una propria progressione melodica (spesso su due ottave); nella sua accezione curda, tuttavia, il termine si riferisce più che altro a una melodia standard utilizzata come modello per l'elaborazione di canzoni. L'ultimo capitolo descrive gli strumenti musicali utilizzati dai curdi e le loro tecniche, tra cui l'oboe zurnâ, il flauto shemshâl, il cisto tanbur e il tamburo dahaf. Nei vari Paesi dell'Asia centrale e del Medio Oriente troviamo più o meno gli stessi strumenti, a volte con nomi completamente diversi (il famoso duduk armeno è chiamato bâlâbân in Turchia e narme-nây dai curdi).

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Frances Densmore: Les Indiens d'Amérique et leur musique, 128 p., € 10,00, Edizioni Allia, Parigi 2017, ISBN: 979-10-304-0515-6

Bruno Deschênes: Le Shakuhachi japonais. Une tradition réinventée, 256 p., ca. € 26,00, Editions Harmattan, Paris 2017, ISBN 978-2-343-11170-4

Mohammad Ali Merati: Les Maqâms anciens et les instruments de la musique kurde d'Iran et d'Irak, 236 p., ca. € 24,00, Editions Harmattan, Paris 2016, ISBN 978-2-343-09470-0

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